Ogni tanto ripenso con nostalgia
al giorno del mio matrimonio.
La cerimonia si è svolta in una
chiesetta di campagna, in una torrida mattina di giugno, ed è stata molto
emozionante; mia madre ha pianto commossa per tutta la funzione (poi ho
scoperto che piangeva perché aveva dimenticato di attaccare l’ossigeno alla vecchia nonna, che soffre di enfisema; per fortuna, quando è tornata a casa,
l’ha trovata con il tecnico del Salvalavita Beghelli che le praticava la
respirazione artificiale); il mio novello marito, che è sempre stato un uomo
poco incline a manifestare le proprie emozioni, al momento del fatidico “sì” ha
vomitato sul paggetto che portava le fedi; di conseguenza il prete, suscitando
la costernazione dei chierichetti e dei presenti, ha inveito con termini
brutali ma efficaci contro il suo onnipotente datore di lavoro.
Il pranzo di nozze si è svolto
nella tipica cascina fuori Milano, dove di solito il menù consiste - anche in
estate inoltrata con 31 gradi all’ombra - in: ravioloni di carne con sugo di
lepre; pasta all’uovo fatta in casa condita con panna, besciamella e funghi;
brasato con polenta e gorgonzola; ossibuchi con le cotiche e le verze. Il tutto
intervallato dall’orripilante sorbetto al limone, perché, secondo la bizzarra
teoria dello chef, fa molto “novelle cousine” provocare allo stomaco, dopo il
calore impietoso dei primi piatti, un improvviso quanto traumatico calo
termico; tutto questo per poi riabituarsi repentinamente al sapore delle verze
bollenti.
Al momento del dessert, dopo
circa sette ore dall’inizio del pranzo, gli invitati hanno cominciato ad
assumere una strana espressione catatonica, motivata anche dall’esibizione
interminabile di “Silvano e la sua orchestra”, il cui repertorio andava dai
Cugini di Campagna a Pupo, passando da Peppino di Capri a Gino Paoli; nel bel
mezzo della Bassa Milanese era curioso ascoltare “sapore di sale, sapore di
mare, che hai sulla pelle, che hai sulle labbra”, quando in realtà l’unico
sapore che ti sentivi in bocca era quello del brasato con le cotiche che saliva
e scendeva al ritmo dei favolosi anni ’60.
Poi finalmente, come un incubo
che finisce, alle dieci di sera tutti a casa a stramazzarsi sui propri letti,
dopo essersi tracannati un provvidenziale tazzone gigante di acqua e
bicarbonato. Prima di addormentarmi, un ultimo pensiero: il ferreo proposito di
convincere chiunque - parenti, amici, figli e nipoti - che ormai siamo nel
ventunesimo secolo e non c’è più bisogno di sposarsi; anzi, che la convivenza è
un atto serio e responsabile, da persone adulte e mature.
Per il viaggio di nozze ci siamo
avventurati in una di quelle isole da sogno, un vero angolo di paradiso
terrestre; era da molto tempo che mio marito sognava di visitare un luogo
esotico, con le spiagge bianche, le palme, il mare trasparente, i tramonti dai
colori inverosimili e le capanne in mezzo alla foresta (dotate però di ogni
comfort, compresa l’antenna parabolica per non perdersi il derby Milan-Inter);
immancabile poi la presenza del tipico indigeno-schiavo, pronto a esaudire ogni
desiderio, dal cocktail analcolico a basa di frutta al massaggio rilassante con
olii essenziali. Peccato che, essendo la stagione dei monsoni, nell’arco di una
settimana ha piovuto sei giorni di fila, l’antenna parabolica si è guastata -
con relativa crisi nervosa di mio marito perché “chi cazzo me l’ha fatto fare
di venire in quest’isolaccia deserta di merda quando a quest’ora ero sul divano
a guardare il Milan su Sky” - e in più, gli indigeni-schiavi erano in sciopero
per una spinosa vertenza sindacale con i proprietari del villaggio-vacanza; al
ritorno dal viaggio, per colpa del grave stress emotivo provocato dalla
mancanza di calcio (nel senso di football), mio marito si è preso un’altra
settimana di vacanza ed è andato a Las Vegas per riposarsi.
Nonostante queste piccole
contrarietà, la nostra vita matrimoniale è sempre stata soddisfacente; mai un
litigio, mai una discussione, mai una parola fuori luogo o uno scatto di
nervosismo. Al contrario, un dialogo costante, tanta comprensione e rispetto
reciproco. Certo, non era facile trovarlo al telefono, vista la differenza di
fuso orario tra il Nevada e l’Italia; però, quelle poche volte che siamo
riusciti a sentirci, abbiamo fantasticato sul suo rientro a casa o sul mio
trasferimento a Las Vegas. Solo che lui avrebbe voluto fare le due cose
contemporaneamente, e allora non avremmo certo risolto il problema delle
bollette telefoniche.
Un giorno mi ha telefonato e mi
ha chiesto, con tono commosso, se volevo un figlio da lui. Con pari commozione,
naturalmente, ho risposto di sì, felice come non lo ero mai stata: così, lui è
tornato a casa e mi ha portato Kevin Pasquale, un bel bambino che assomiglia
tanto al suo papà e un pochino, credo, anche alla sua mamma, una ballerina del
Gran Casinò di Las Vegas.
Ormai è passato un anno dal
giorno in cui mio marito è tornato, e devo dire che non mi sono mai pentita
della mia scelta; l’altro giorno per esempio, lo guardavo
attentamente e pensavo che la vita è davvero meravigliosa, che a volte ti
regala delle gioie inaspettate. Osservavo il suo volto sereno, il suo corpo
rilassato, le sue lunghe dita intrecciate - che belle mani che ha mio marito -,
i suoi capelli sparsi sul cuscino, e pensavo: poche donne hanno la fortuna di
assaporare dei momenti così sublimi.
Poi il becchino ha chiuso la bara, e io me ne sono andata dalla camera
mortuaria dicendo tra me e me: e sì, momenti così nella vita ce ne sono pochi,
godiamoceli finché durano.
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