venerdì 20 dicembre 2013

Il giorno più bello


Ogni tanto ripenso con nostalgia al giorno del mio matrimonio.
La cerimonia si è svolta in una chiesetta di campagna, in una torrida mattina di giugno, ed è stata molto emozionante; mia madre ha pianto commossa per tutta la funzione (poi ho scoperto che piangeva perché aveva dimenticato di attaccare l’ossigeno alla vecchia nonna, che soffre di enfisema; per fortuna, quando è tornata a casa, l’ha trovata con il tecnico del Salvalavita Beghelli che le praticava la respirazione artificiale); il mio novello marito, che è sempre stato un uomo poco incline a manifestare le proprie emozioni, al momento del fatidico “sì” ha vomitato sul paggetto che portava le fedi; di conseguenza il prete, suscitando la costernazione dei chierichetti e dei presenti, ha inveito con termini brutali ma efficaci contro il suo onnipotente datore di lavoro.
Il pranzo di nozze si è svolto nella tipica cascina fuori Milano, dove di solito il menù consiste - anche in estate inoltrata con 31 gradi all’ombra - in: ravioloni di carne con sugo di lepre; pasta all’uovo fatta in casa condita con panna, besciamella e funghi; brasato con polenta e gorgonzola; ossibuchi con le cotiche e le verze. Il tutto intervallato dall’orripilante sorbetto al limone, perché, secondo la bizzarra teoria dello chef, fa molto “novelle cousine” provocare allo stomaco, dopo il calore impietoso dei primi piatti, un improvviso quanto traumatico calo termico; tutto questo per poi riabituarsi repentinamente al sapore delle verze bollenti.
Al momento del dessert, dopo circa sette ore dall’inizio del pranzo, gli invitati hanno cominciato ad assumere una strana espressione catatonica, motivata anche dall’esibizione interminabile di “Silvano e la sua orchestra”, il cui repertorio andava dai Cugini di Campagna a Pupo, passando da Peppino di Capri a Gino Paoli; nel bel mezzo della Bassa Milanese era curioso ascoltare “sapore di sale, sapore di mare, che hai sulla pelle, che hai sulle labbra”, quando in realtà l’unico sapore che ti sentivi in bocca era quello del brasato con le cotiche che saliva e scendeva al ritmo dei favolosi anni ’60.
Poi finalmente, come un incubo che finisce, alle dieci di sera tutti a casa a stramazzarsi sui propri letti, dopo essersi tracannati un provvidenziale tazzone gigante di acqua e bicarbonato. Prima di addormentarmi, un ultimo pensiero: il ferreo proposito di convincere chiunque - parenti, amici, figli e nipoti - che ormai siamo nel ventunesimo secolo e non c’è più bisogno di sposarsi; anzi, che la convivenza è un atto serio e responsabile, da persone adulte e mature.
Per il viaggio di nozze ci siamo avventurati in una di quelle isole da sogno, un vero angolo di paradiso terrestre; era da molto tempo che mio marito sognava di visitare un luogo esotico, con le spiagge bianche, le palme, il mare trasparente, i tramonti dai colori inverosimili e le capanne in mezzo alla foresta (dotate però di ogni comfort, compresa l’antenna parabolica per non perdersi il derby Milan-Inter); immancabile poi la presenza del tipico indigeno-schiavo, pronto a esaudire ogni desiderio, dal cocktail analcolico a basa di frutta al massaggio rilassante con olii essenziali. Peccato che, essendo la stagione dei monsoni, nell’arco di una settimana ha piovuto sei giorni di fila, l’antenna parabolica si è guastata - con relativa crisi nervosa di mio marito perché “chi cazzo me l’ha fatto fare di venire in quest’isolaccia deserta di merda quando a quest’ora ero sul divano a guardare il Milan su Sky” - e in più, gli indigeni-schiavi erano in sciopero per una spinosa vertenza sindacale con i proprietari del villaggio-vacanza; al ritorno dal viaggio, per colpa del grave stress emotivo provocato dalla mancanza di calcio (nel senso di football), mio marito si è preso un’altra settimana di vacanza ed è andato a Las Vegas per riposarsi.
Nonostante queste piccole contrarietà, la nostra vita matrimoniale è sempre stata soddisfacente; mai un litigio, mai una discussione, mai una parola fuori luogo o uno scatto di nervosismo. Al contrario, un dialogo costante, tanta comprensione e rispetto reciproco. Certo, non era facile trovarlo al telefono, vista la differenza di fuso orario tra il Nevada e l’Italia; però, quelle poche volte che siamo riusciti a sentirci, abbiamo fantasticato sul suo rientro a casa o sul mio trasferimento a Las Vegas. Solo che lui avrebbe voluto fare le due cose contemporaneamente, e allora non avremmo certo risolto il problema delle bollette telefoniche.
Un giorno mi ha telefonato e mi ha chiesto, con tono commosso, se volevo un figlio da lui. Con pari commozione, naturalmente, ho risposto di sì, felice come non lo ero mai stata: così, lui è tornato a casa e mi ha portato Kevin Pasquale, un bel bambino che assomiglia tanto al suo papà e un pochino, credo, anche alla sua mamma, una ballerina del Gran Casinò di Las Vegas.
Ormai è passato un anno dal giorno in cui mio marito è tornato, e devo dire che non mi sono mai pentita della mia scelta; l’altro giorno per esempio, lo guardavo attentamente e pensavo che la vita è davvero meravigliosa, che a volte ti regala delle gioie inaspettate. Osservavo il suo volto sereno, il suo corpo rilassato, le sue lunghe dita intrecciate - che belle mani che ha mio marito -, i suoi capelli sparsi sul cuscino, e pensavo: poche donne hanno la fortuna di assaporare dei momenti così sublimi.
Poi il becchino ha chiuso la bara, e io me ne sono andata dalla camera mortuaria dicendo tra me e me: e sì, momenti così nella vita ce ne sono pochi, godiamoceli finché durano.

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