-
Perché l’ha fatto, De Marchi? Quale impulso l’ha spinta?
- È difficile risponderle, ispettore; a
dire il vero non immaginavo che le cose sarebbero andate in quel modo. Se mi
permette di spiegarle, le dirò tutto quello che è successo, fin dall’inizio.
L’ispettore Berardi si
lasciò cadere con un tonfo sulla sedia sgangherata dietro la scrivania, ancora
ingombra dei documenti risalenti all’epoca Coppola, il suo predecessore, l’uomo
a capo della squadra investigativa per undici lunghi anni. Una volta andato in
pensione, la direzione era passata sotto il suo comando. Riuscirò mai a liberarmi di queste maledette scartoffie?, pensò con
irritazione.
Giuliano
si accese una sigaretta. A Berardi non piaceva che si fumasse nel suo ufficio,
ma non voleva rovinare il clima di fragile intimità che si era creato tra lui e
il giovane erede della famiglia De Marchi. Anche se non voleva ammetterlo,
l’ispettore desiderava capire fino in fondo che cosa l’avesse spinto a compiere
quel gesto di inutile violenza, in apparenza inconsueto per quel genere di
individuo. Così, si predispose all’ascolto e, con un cenno del capo, gli fece
capire che stava aspettando il suo racconto.
- Vede, ispettore, quel giorno mi ero
svegliato di buonumore. Mi ero fatto una doccia, avevo messo il completo che indosso
di solito per andare al club e avevo preparato la borsa per giocare a tennis.
Avevo appuntamento con il mio amico Filippo Reali, che mi aspettava al circolo
con due ragazze. Una di loro era l’ultima fiamma di Filippo, Wendy,
un’americana di Cincinnati. L’altra, l’avevo intravista il giorno prima, al
circolo; dopo essermi informato con discrezione, avevo scoperto che era
un’amica di Wendy. In seguito a varie insistenze, l’avevo convinta a
presentarmela. Avevamo combinato l’incontro, e io ero molto eccitato all’idea
di conoscerla. Mi creda, ispettore, era una visione. Mora, i capelli lunghi così
lisci e lucidi da sembrare ebano; occhi neri, all’orientale, carnagione ambrata
e una bocca per cui avrei potuto uccidere. Non mi fraintenda, però; non è certo
quello il motivo che mi ha spinto a farlo.
Mentre Giuliano raccontava la sua
versione, l’ispettore Berardi tratteneva a stento l’impazienza. Cosa poteva
importare a lui dei lucidi capelli neri o della bocca sensuale della ragazza?
Provando uno spontaneo livore nei confronti del ragazzo, pensò che non c’erano
valide giustificazioni o motivi plausibili per ciò che aveva fatto. Tuttavia,
si concentrò sulle sue parole per non interromperne il flusso; sapeva bene che
quando un indiziato comincia a parlare, niente riesce più a fermarlo. Bisogna
soltanto aspettare che la storia giunga al termine, per poi estrapolare le
parole chiave dal groviglio informe della confessione e decodificarla. Un po’
come tradurre una nuova lingua a ogni interrogatorio. E lui aveva trovato da
tempo la sua stele di Rosetta.
Giuliano continuò:
- Stavo per uscire
dalla villa quando sentii squillare il telefono. Al momento non ci feci troppo
caso; di solito risponde Maria, la cameriera. Ma dato che continuava a suonare,
risposi io. Era Filippo, preoccupato al pensiero di non trovarmi più in casa. Mi
disse che l’appuntamento era saltato a causa di un improvviso impegno dell’amica
di Wendy. Sapevo che si chiamava Ambrosia, come il cibo degli dèi. Non le nego,
ispettore, che quel nome mi faceva immaginare i modi più diversi d’assaggiarla
e assaporarla, proprio come un nettare. Perciò, quell’imprevisto mi aveva
indispettito, ma aveva anche suscitato in me un desiderio ancora più forte di
conoscerla. Sembrava che mi volesse sfuggire. Io, però, se mi fisso su una cosa
non c’è verso di togliermela dalla testa, ispettore. Ecco perché decisi di
rintracciare il suo numero di telefono. Volevo sorprenderla e farle capire che
non mi sarei arreso facilmente.
- Ed è per questo che sui tabulati
della compagnia telefonica abbiamo trovato 12 chiamate al numero della
signorina Ferri? E tutte nello stesso giorno dell’omicidio, poi?
Ambrosia
Ferri…, pensò tra sé e sé l’ispettore. Un
nome dolce come il miele e un cognome duro come l’acciaio.
- Non ha mai pensato che la ragazza si
sarebbe infastidita per colpa del suo atteggiamento insistente?”
- In quel momento non la vedevo così.
Volevo solo sentire la sua voce e fissare un appuntamento. Desideravo
incontrarla, ispettore. Più di qualsiasi altra cosa.
- Come ha fatto a procurarsi il numero?
- Wendy. Me l’ha dato lei.
- E poi, cosa avvenne? Come reagì
Ambrosia alle sue telefonate?
- Le prime quattro o cinque chiamate
andarono a vuoto. Alla sesta, finalmente, rispose, ma aveva una voce assonnata,
come se si fosse appena svegliata. Mi arrabbiai. Era per questo che aveva
rinunciato all’appuntamento? Erano questi gli ‘impegni’ che le avevano impedito
di incontrarmi al club?
- Dunque, era arrabbiato. E che cosa le
disse? L’aggredì, le sbatté il telefono in faccia, o che altro?
- Ispettore, non dimentichi che la
ragazza praticamente non mi conosceva, se non di vista. Il nostro appuntamento
era al buio; almeno per lei.
- Continui, la prego.
- Le ho già detto che rispose con una
voce strascicata, assonnata, quasi rauca. Stavo per dirle chi fossi quando in
sottofondo sentii un’altra voce. Maschile. Borbottava qualcosa, e io capii solo
‘mettilo giù e vieni qua’ o qualcosa del genere. A quel punto misi giù io.
Giuliano chinò la testa e fissò il
pavimento, le occhiaie nerastre messe ancora più in evidenza dal riflesso del
neon sul suo volto. L’ispettore Berardi rimase zitto, aspettando che il ragazzo
esprimesse i suoi stati d’animo dopo quella telefonata. Ma il silenzio si
prolungò un po’ troppo a lungo.
- Così, lei, frustrato e arrabbiato,
come reagì? La richiamò sicuramente, perché si vede dai tabulati. Altre sei
telefonate, di qualche minuto ciascuna. Che cosa fece? Quali erano i suoi
pensieri in quel momento?
Giuliano alzò la testa e lo fissò; gli
occhi, prima spenti, ora sembravano possedere un bagliore oscuro, come se dal
baratro della sua mente stesse emergendo qualcosa di folle e sinistro.
- Volevo risentire la sua voce. Non
quella di Ambrosia: l’altra. Mi sembrava di conoscerla, ma non ne ero certo.
Così ho chiamato. E chiamato. E chiamato ancora. La mia mente aveva registrato
la tonalità, il timbro, l’inflessione, il modo di parlare. Ma si rifiutava di
darle un nome. Fino a quando non mi ha risposto lui in persona. Continuava a
dire ‘pronto, pronto! Chi cazzo sei?’ e insultava, senza nemmeno sapere chi
fosse all’ascolto. Non richiamai più. Fu l’ultima telefonata che feci.
- Alla fine, riconobbe la voce?
Silenzio. E di nuovo quel bagliore cupo
negli occhi.
- Era Filippo.
A quel punto anche Berardi ammutolì.
E fu allora che comprese, e che la
stele di Rosetta cominciò a fare il suo lavoro di traduzione. Nella sua mente
si materializzò lo scenario. Ricostruì i fatti. Visualizzò la stanza dove era
stato commesso il delitto, la porta che si apriva, la cameriera che urlava e
Giuliano, con lo sguardo vuoto, che non capiva perché ci fosse tutto quel
trambusto. E poi, l’arrivo della polizia, il sopralluogo, il medico legale,
l’analisi della scena del crimine.
- Che cosa ha fatto dopo l’ultima
telefonata? - gli chiese Berardi.
- Mi sono seduto. Ho aspettato che mi
venisse un’idea. Volevo ammazzarlo, ma non sapevo come. Poi ho preso dei fogli
dal cassetto della scrivania. Li ho piegati e ripiegati; ne ho fatto una
piccola scultura di carta: un cigno. Sa come si chiama quest’arte? Origami.
Quando non so cosa fare, mi rilasso così. E io in quel momento non sapevo
davvero come comportarmi. Nell’attesa che mi venisse un’ispirazione, l’ho
ammazzato.
- Già. L’ha ammazzato. E tutto per una donna che nemmeno conosceva. Ha una vaga idea di quello
che ha fatto, perdio?
Berardi si accorse che stava alzando la
voce. Giuliano lo guardò, con i suoi occhi scuri e vuoti.
- Sì, ora me ne rendo conto. Ma non
sapevo cosa fare. È per questo che ho ammazzato il tempo.