martedì 7 gennaio 2014

CURRICULUM VITAE, MORTAE E MIRACOLAE


Nella mia vita ho cambiato più lavori che mutande.
Sono passata dalla multinazionale giapponese allo scantinato semi-clandestino dove facevo la grafica per i cataloghi della Postalmarket: in pratica, impaginavo immagini di modelle con indosso biancheria in cartongesso spacciato per pura seta, con didascalie scritte da diplomati alla scuola Radio Elettra di Torino.
Però c’è sempre stato un filo conduttore in tutte queste mie migrazioni da un posto di lavoro all’altro: la palpata di culo. Ovunque mi trovassi, infatti, c’era sempre un datore di lavoro che mi palpava il sedere, implacabilmente. Non ho mai capito se il mio didietro fosse così irresistibile, oppure se fosse proprio un fatto congenito dei capi, come un tic nervoso. Invece di mangiarsi le unghie, zac, una toccatina. Fatto sta che, anche quando mi sono messa in proprio e sono diventata la datrice di lavoro di me stessa, ho continuato a palparmi per mantenere vive le tradizioni.
Da giovane ho fatto anche l’impiegata; lavoravo nel settore marketing, facevo i briefing col management, i planning coi commercials e organizzavo meetings con i dealers. Non capivo un cazzo di quello che facevo perché non sapevo l'inglese, ma per fortuna non se n’è mai accorto nessuno. 
Poi sono diventata segretaria di direzione. Nel senso che l’unica direzione verso cui andavo era quella della macchinetta del caffè da portare ai capi. In ufficio c’erano delle storie degne di Beautiful. Gente che trombava sui muletti del magazzino centrale, ritrovata poi al terzo piano dello scompartimento C3; scenate tra amanti in corridoio con reciproco scambio di accuse e ricerche di mercato; sussurri e grida sotto le scrivanie durante la pausa pranzo… Alla fine mi hanno licenziato per comportamento immorale: ero l’unica che lavorava.
Nell’impiego successivo mi sono occupata di “gestione delle risorse umane”. Io, al massimo, conoscevo la gestione delle risorse ittiche, agricole, forestali… Quando lo spiegavo ai miei amici, mi chiedevano se avessi un allevamento intensivo di impiegati. Alla fine, altro licenziamento: mi vergognavo di dire quello che facevo e così mi spacciavo per la donna delle pulizie.
Cercando tra gli annunci di lavoro, mi accorgevo sconsolata che, in base alle richieste delle società, avrei dovuto avere meno di 25 anni, l’esperienza di una di 40, minimo due lauree, la conoscenza perfetta di almeno tre lingue, l’ottima presenza, le capacità organizzative di una kapò nazista, la disponibilità a viaggiare e a fare orari elastici e, in ultimo, la propensione a saper gestire lo stress. Figuriamoci, io che devo prendere dieci gocce di Xanax anche quando devo attraversare la strada. Inoltre, l’ideale sarebbe stato o avere figli già grandi (a 25 anni?) o la prospettiva di rimanere zitella. Perché i datori di lavoro, giustamente, hanno sempre il terrore che rimani incinta, soprattutto se sono loro a metterti nella fastidiosa situazione.
Per non farmi mancare niente, ho fatto persino il telemarketing. Che, tradotto in italiano, significa: “Mi scusi signora se le rompo i coglioni mentre sta guardando Vento di passioni con Brad Pitt. Le interessa un campione gratuito del nostro beverone dimagrante Sbobbavit? Ah, l’ha già provato sua figlia? E com’è andata? Ah, è deceduta.”
Ora, dopo anni di esperienze negative, ho finalmente trovato la mia strada. Se qualcuno fosse interessato, si trova appena prima dell’ingresso alla tangenziale ovest, sul Viale Famagosta, a Milano. Mi si riconosce dagli stivali dorati.


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