Nella mia vita ho cambiato più lavori che mutande.
Sono passata dalla multinazionale giapponese allo scantinato
semi-clandestino dove facevo la grafica per i cataloghi della Postalmarket: in
pratica, impaginavo immagini di modelle con indosso biancheria in cartongesso
spacciato per pura seta, con didascalie scritte da diplomati alla scuola Radio
Elettra di Torino.
Però c’è sempre stato un filo conduttore in tutte queste mie
migrazioni da un posto di lavoro all’altro: la palpata di culo. Ovunque mi
trovassi, infatti, c’era sempre un datore di lavoro che mi palpava il sedere,
implacabilmente. Non ho mai capito se il mio didietro fosse così irresistibile,
oppure se fosse proprio un fatto congenito dei capi, come un tic nervoso.
Invece di mangiarsi le unghie, zac, una toccatina. Fatto sta che, anche quando
mi sono messa in proprio e sono diventata la datrice di lavoro di me stessa, ho
continuato a palparmi per mantenere vive le tradizioni.
Da giovane ho fatto anche l’impiegata; lavoravo nel settore
marketing, facevo i briefing col management, i planning coi commercials e
organizzavo meetings con i dealers. Non capivo un cazzo di quello che facevo perché non sapevo l'inglese,
ma per fortuna non se n’è mai accorto nessuno.
Poi sono diventata segretaria di
direzione. Nel senso che l’unica direzione verso cui andavo era quella della
macchinetta del caffè da portare ai capi. In ufficio c’erano delle storie degne
di Beautiful. Gente che trombava sui muletti del magazzino centrale, ritrovata
poi al terzo piano dello scompartimento C3; scenate tra amanti in corridoio con
reciproco scambio di accuse e ricerche di mercato; sussurri e grida sotto le
scrivanie durante la pausa pranzo… Alla fine mi hanno licenziato per
comportamento immorale: ero l’unica che lavorava.
Nell’impiego successivo mi sono occupata di “gestione delle
risorse umane”. Io, al massimo, conoscevo la gestione delle risorse ittiche,
agricole, forestali… Quando lo spiegavo ai miei amici, mi chiedevano se avessi
un allevamento intensivo di impiegati. Alla fine, altro licenziamento: mi
vergognavo di dire quello che facevo e così mi spacciavo per la donna delle
pulizie.
Cercando tra gli annunci di lavoro, mi accorgevo sconsolata
che, in base alle richieste delle società, avrei dovuto avere meno di 25 anni,
l’esperienza di una di 40, minimo due lauree, la conoscenza perfetta di almeno
tre lingue, l’ottima presenza, le capacità organizzative di una kapò nazista,
la disponibilità a viaggiare e a fare orari elastici e, in ultimo, la propensione a saper
gestire lo stress. Figuriamoci, io che devo prendere dieci gocce di Xanax anche
quando devo attraversare la strada. Inoltre, l’ideale sarebbe stato o avere
figli già grandi (a 25 anni?) o la prospettiva di rimanere zitella. Perché i
datori di lavoro, giustamente, hanno sempre il terrore che rimani incinta,
soprattutto se sono loro a metterti nella fastidiosa situazione.
Per non farmi mancare niente, ho fatto persino il telemarketing. Che, tradotto in italiano, significa: “Mi scusi signora se le rompo i coglioni
mentre sta guardando Vento di passioni con Brad Pitt. Le interessa un campione
gratuito del nostro beverone dimagrante Sbobbavit? Ah, l’ha già provato sua
figlia? E com’è andata? Ah, è deceduta.”
Ora, dopo anni di esperienze negative, ho finalmente trovato la
mia strada. Se qualcuno fosse interessato, si trova appena prima dell’ingresso
alla tangenziale ovest, sul Viale Famagosta, a Milano. Mi si riconosce dagli
stivali dorati.
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